Le scuse, nel calcio di oggi, non valgono niente
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La squalifica di quattro giornate a Mario Ierardi è una di quelle storie che ti lasciano un nodo allo stomaco, una roba che proprio non riesci a mandare giù, anche se provi a restare calmo.
Il Giudice Sportivo ha preso la penna e ha scritto: “condotta violenta e frasi offensive all’arbitro”. Due colpi, due condanne. Come se Ierardi avesse sparato a qualcuno per ucciderlo, invece di avere solo perso la testa per un secondo. Chi ha visto Casertana–Catania sa che non c’è stato nessun atto di violenza, ma un gesto impulsivo, figlio di una partita sporca e storta. E poi, a fine gara, il ragazzo che si presenta davanti ai microfoni, con la voce bassa e le parole giuste: “Ho sbagliato. Chiedo scusa.”
Ma le scuse, nel calcio di oggi, non valgono niente. Qui se sei sincero e ammetti l’errore, ti trattano peggio. Ti bastonano per dare l’esempio, come se i tifosi avessero bisogno di una lezione di moralismo in salsa federale. E intanto ogni domenica si vedono falli da galera e proteste da teatro, ma lì gli occhi si chiudono, guarda caso.
La verità è che questa è burocrazia travestita da rigore, un gesto di potere più che di equità. È il solito sistema che colpisce chi non ha santi in paradiso.
E i tifosi? Li abbiamo letti, arrabbiati: “Quattro giornate? Ma che ha fatto, ha sparato a qualcuno?” Una rabbia viscerale, non per difendere l’indifendibile, ma perché l’hanno sentita ingiusta, sproporzionata, la solita punizione esemplare a chi osa ancora avere un’anima.
Mario Ierardi non ha agito da santo, men che meno da professionista in campo, ma non è nemmeno il cattivo del film. Ha sbagliato, ha chiesto scusa. E per questo non meriterebbe il patibolo federale.